Tra bullismo politico e dignità della carica

Il Gran Consiglio ha votato contro l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta (CPI). Su questo strumento, su quale sia il metodo migliore per combattere gli abusi sessuali e quale sia la sede per stabilirlo, ognuno può avere la sua opinione. La mia è nota: la magistratura faccia le inchieste, la politica le leggi. Il punto, però, è un altro. A seguito del voto parlamentare, il presidente del PPD ha smosso una valanga di fango precipitata addosso a chi scrive, ma non solo, che nulla ha a che vedere con la libertà di opinione. Sul suo profilo FB ha pubblicato diversi post, lasciando commentare centinaia di utenti, tollerando invettive, insulti e anche minacce. Questa è una violenza.

Piange il cuore dover ricordare che non esiste la libertà di aggredire, insultare, minacciare. Rattrista essere costretti a ribadire che il detto «tratta gli altri come vorresti che ti trattassero» vale anche per l’uso pubblico della parola. Intristisce rammentare che un insulto non è un’opinione ma una minaccia seria alla libertà di chi lo subisce. Preoccupa che, una volta di più, quando si tratta di una donna lo sfondo sessuale dell’aggressione verbale è una costante. A un uomo nessuno augura una violenza sessuale quando non condivide il suo pensiero, a una donna questo e altro, come fosse un bersaglio libero delle peggiori fantasie di chi commenta, e di chi tollera. L’altra sera, a Teleticino, Dadò ha dichiarato, con una certa sufficienza, che se va al bar con degli amici e questi insultano la cameriera, mica è colpa sua. L’esempio preso la dice lunga ma vale la pena ricordare al deputato che secondo il Tribunale federale anche la propagazione di propositi diffamatori costituisce un reato. Con i «like» e le condivisioni un utente contribuisce infatti ad aumentare la visibilità di un contenuto sui social network: la responsabilità, dunque, non è solo di chi insulta ma anche di chi tollera sul proprio profilo, commenta a sua volta, condivide e via di seguito. Non solo, in quella stessa trasmissione, Dadò si è permesso di dire che i contrari alla CPI hanno «stuprato la verità» e molto altro ancora. Insomma, un’altra shitstorm, stavolta in diretta tv, poi, naturalmente, prontamente da lui postata sui social. Il collega avvocato, pure deputato e capogruppo del PPD, Maurizio Agustoni, potrebbe ricordare al suo presidente quali siano i limiti, legali oltre che etici, magari invitandolo a scusarsi con chi scrive, per avermi apostrofato volgarmente – a margine della seduta granconsigliare e in presenza dello stesso Agustoni – con un «vai a fanculo». A che punto siamo arrivati, e cosa ci attende proseguendo lungo questa strada costellata di infamie? Fino a quando tollereremo questa rozzezza? Con quali conseguenze per la libertà politica delle donne e quindi per la libertà politica tout court? Nell’ultima settimana, Dadò ha rilasciato dichiarazioni a destra e manca, prima alla RSI, poi sui giornali e infine anche a Teleticino. Per parte mia ho preferito invece prendermi del tempo e non partecipare a nessun dibattito, temendo – ancora una volta a ragione, che si sarebbe trattato solo di una bagarre. Sono giunta alla conclusione che dietro allo strepito di voci scomposte si nasconde quasi sempre il silenzio delle idee e il vuoto dei progetti. Tutto questo gridare vuole camuffare l’assenza di proposte, surrogare la difficoltà di confrontarsi con realtà difficili, preferendo la via della zuffa e della declamazione.

Spiace doverlo dire, ma ciò che è seguito al dibattito parlamentare dimostra – una volta ancora – che alcuni deputati non sembrano avere compreso che essere eletti dal popolo non conferisce il diritto di offendere, anzi. Si entra in carica con i voti, si rimane in carica con il mandato di far bene, nell’interesse pubblico e orientando la propria attività sempre e comunque al rispetto delle persone, tutte. Anche gli avversari politici. La libertà di opinione è, infatti, anche responsabilità di opinione, a maggior ragione nel contesto contemporaneo. Gli studi, tutti, ci dicono che i social media, specie nelle fasce più giovani della popolazione, stanno diventando una fonte sempre maggiore di informazione. Il più recente, svolto per conto dell’Ufficio federale delle comunicazioni (Ufcom), afferma che al primo posto – con il 34% di potere sull’opinione – troviamo proprio i social media, ad esercitare il maggior influsso sui giovani tra 15 e 29 anni. Nella Svizzera italiana, in particolare, si nota un incremento dell’uso dei social media e dei media online, fino a fare concorrenza a radio, televisione e alla carta stampata. Questi dati impongono un’assunzione di responsabilità accresciuta da parte di chi comunica sui social, specie se si tratta della classe politica, che lamenta una perdita di credibilità ma che stenta a dare l’esempio. I granconsiglieri che partecipano alla discussione pubblica, tanto più se si tratta di presidenti di partito, capigruppo e via narrando, dovrebbero dimostrare una responsabilità educativa che va ben oltre il voto in aula dei crediti per la formazione e l’istruzione. Conta anche come ci si comporta fuori, per strada, sui social. Le invettive non permettono di affrontare i temi, limitandosi a ripetere all’infinito lo stesso disco, cercando sempre capri espiatori e non vere soluzioni. Il bullismo politico deve finire: tutti noi meritiamo di meglio e abbiamo diritto ad essere rispettati. Cominciamo da qui, invece che dalle CPI.

Natalia Ferrara, granconsigliera PLR, Corriere del Ticino, 2 ottobre 2020